le fonti

tito livio

(PADOVA 59 A.C. – 17 D.C.); STORICO LATINO.

STORIA DI ROMA, LIBRO XXXIII, 36

Azioni belliche in Etruria e in Gallia

(…..)

 

I consoli partirono per le loro province. Marcello che era penetrato nel territorio dei Boi con l’esercito stanco per aver marciato un giorno intero, mentre stava rizzando l’accampamento su di una altura, venne attaccato da un tal Corolamo, un capo dei Boi, con forze ingenti: circa tremila romani caddero uccisi; ed anche alcuni personaggi notevoli furono vittime di quel combattimento disordinato, trai quali T:Sempronio Gracco e M.Giunio Silano, prefetti degli alleati, e M.Ogulnio e P.Claudio, tribuni militari della seconda legione. Ciò non ostante, l’accampamento fu sollecitatamene allestito dai Romani che seppero anche conservalo contro gli attacchi inutilmente tentati dai nemici esaltarti dal successo ottenuto in battaglia. Marcello rimase per alcuni giorni stabile in quel campo sia per curare i feriti, sia per dare animo ai soldati dopo tanto avvilimento. I Boi che, come tutte quelle popolazioni, non sapevano affatto sopportare la noia di una attesa inerte, si dispersero qua e là per i loro castelli e villaggi. Marcello, rapidamente passato il Po, condusse le legioni nel territorio Comense dove stavano accampati gli Insubri che avevano spinto alla armi i Comensi. I Galli, resi più arditi dal combattimento dei Boi di qualche giorno prima, impegnarono battaglia durante la marcia dei Romani; e il primo attacco fu così violento che gli antisegnani ne vacillarono. Marcello, notato il fatto e temendo che l’incertezza causasse un ripiegamento, rafforzò il fronte con una coorte di Marsi e lanciò contro il nemico tutti gli squadroni di cavalleria latina. Una prima e una seconda carica di essi raffrenò il furioso attacco dei Galli e permise al resto dell’esercito di non perdere terreno e poi di lanciarsi impetuoso. I Galli non resistettero a lungo, ché anzi voltarono le spalle e si diedero ad una fuga disordinata. Valerio Anziate scrive che in quella battaglia vennero uccisi quarantamila nemici, prese ottantasette insegne militari e settecentotrentadue carri: in più una quantità di collane d’oro, una delle quali, di gran peso, secondo Claudio Quadrigario, venne posta come dono a Giove nel tempio del Campidoglio. Il campo dei Galli fu espugnato e saccheggiato, la città di Como, dopo pochi giorni, fu conquistata. Ventotto castelli si diedero in seguito al console. Ma gli annalisti discordano anche su un altro punto: se cioè il console abbia portato l’esercito prima contro i Boi e poi contro gli Insubri, cancellando con una vittoria la precedente sconfitta o se la vittoriosa conquista di Como sia stata abbrunata dalla sconfitta patita poi da parte dei Boi.

strabone

(64 a.C. – 23 d.C.); filosofo, geografo e storico greco.

GEOGRAFIA, LIBRO IV

 

3.3

Nella regione del Reno, primi fra tutti, abitano i Nantuati, poi gli Helveti, presso i quali si trovano le sorgenti del fiume Adula.  Quest' ultimo fa parte della Alpi e anche l' Adda scende da esso in direzione opposta verso la celtica cisalpina e riempie il lago Lario, su cui sorge Como, per poi buttarsi nel Po: di questi parleremo in seguito

(...)

 

6.6

Da questi luoghi non sono distanti ne le sorgenti del Reno ne il monte Adula, dal quale scendono in direzione nord e l' Adda in senso opposto, per gettarsi nel lago Lario che si trova nei pressi di Como . Al di sopra di Como, posta alle basi delle Alpi,  abiytano da una parte i Reti e i Vennoni, rivolti a oriente, dall' altro i Lepinti, i Tridentini e gli Stoni e un gran numero di piccoli popoli che abitavano una volta l' Italia, dediti al brigantaggio e  poveri: ora alcuni sono stati completamente annientati, altri completamente civilizzati,tanto che il passaggio tra i monti nel loro territorio che una volta erano pochi e pericolosi, ora sono molto più numerosi e sicuri, per quanto riguarda gli abitanti, e anche comodi, dov'è possibile in virtù dell' ingegno umano.

(...)

 

6.8

Ancora oltra, le zone montuose verso oriente e quelle volte a sud sono abitate dai Reti, e dai Vindolici. che confinano con Helveti e Boi: vivono infatti al di sopra delle loro pianure. I Reti si estendono fino all' Italia, nelle zone sovrastanti Verona e Como (...)

 

GEOGRAFIA, LIBRO V

 

1.6

Anticamente dunque, come ho detto,  la regione intorno al Po era abitata per la maggior parte dai Celti. Le stirpi più importanti tra i Celti erano quelle dei Boi e degli Insubri e, inoltre, di quei Senoni che con i Gesati avevano occupato al primo assalto le città dei romani. Questi popoli poi furno completamente distrutti dai romani e i Boi furono cacciati dalle proprie sedi. Essi andarono a insediarsi nelle regioni dell' Istro e qui abitarono insieme con i Taurisci, combattendo con i Daci finchè la loro stirpe non fu sterminata.  Abbandonarono così, come pascolo per i propri vicini,  quela terra che facva parte dell' Illiria. 

Gli Insubri, invece, ci sono anora oggi.  Essi avevano come metropoli Mediolanum, che anticamente era un villaggio (tutti infatti abitavano sparsi in villaggi); ora, invece,  è una città importante, al di la del Po, quasi ai piedi delle Alpi.

Nei pressi c'è poi Verona, anch' essa una grande città.  Ci sono poi dei centri minori rispetto a queste due quali Brixia, Mantuva, Regium e Comum.

Comum era uno stanziamento modesto, ma Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno,  vi invio dei coloni dopo che era stata abbandonata dai Reti sovrastanti.

Gaio Scipione vi stanziò in seguito 3000 persone; poi, ancora,  il divo Cesare ve ne aggiunse 5000, fra le quali i più illustri erano 500 greci  a cui concesse anche il diritto di cittadinanza e che iscrisse nel numero degli abitanti. Essi non abitarono lì, ma lasciarono alla città il loro nome: tutti i nuovi coloni, infatti, furono designati col nome di Neocometi, da cui il nome, tradotto in latino, di Novocomum.

Vicino a questa località c'è il lago detto Lario, alimentato dalle acque del fiume Adda che poi si riversa nel Po. L' Adda ha le sue sorgenti sul monte Adula, da dove scaturisce anche il Reno. 

 

 

GAIO  VALERIO  CATULLO

(Verona ca. 84 a.C., Roma 84);  poeta latino.

 

CANTO NUMERO 35

 

Al tenero poeta e mio sodale,

Cecilio, io vorrei, papiro, che dicessi

di venire a Verona e di lasciare

Como Nuova le mura e le rive del Lario.

Voglio che ascolti certe riflessioni

che ho fatto su un amico suo e mio.

Perciò divorerà la via se è saggio

Anche se c'è una splendida ragazza

Che lo richiama indietro mille volte,

l' abbraccia forte, dice di aspettare

perché se la notizia è fededegna

lei ci muore di amore irresistibile;

comincio allora, quando lui le lesse

"La signora di Dindimo" in abbozzo:

e bruciò sempre quella poverina,

si consuma d' amore a fuoco lento.

 

CAIO  PLINIO  CECILIO,  detto  “Il Giovane”

(Como 62 ca. - ? 112 ca. d.C.); scrittore e senatore romano.

LETTERE IN CUI PLINIO IL GIOVANE PARLA DI COMO

 

Segue un breve elenco delle lettere di Plinio che hanno come argomento Como, il lago, Plinio il Vecchio o che contengono dei semplici riferimenti ad essi.

 

Libro I

Lettera 3, parla di Como.

Lettera 8, parla della sua donazione per la biblioteca a Como, di cui ci è rimasta come prova l’ iscrizione che si trova in S.Ambrogio a Milano (vedi foto in “Como romana” Parte Prima).

Libro II

Lettera 8, in cui esalta la patria, ricordata nostalgicamente con il duplice scopo  di tesserne le  lodi e di farla  conoscere.

Libro III

Lettera 5, parla degli scritti di suo zio facendone un elenco.

Lettera 6, parla di una statua comprata per donarla in patria.

Libro IV

Lettera 8, parla della donazione per coprire di un  terzo le spese insegnanti che dovevano operare a Como (in cui vi era mancanza di essi), visto che i figli dei suoi concittadini era costretti a studiare altrove, spesso a Milano.

Lettera 30, parla del corso d’acqua che si getta nel lago e di cui non riesce a spiegare l’alternarsi dell’alzarsi e abbassarsi del livello; un fenomeno simile, dice lui, alla marea.

Libro V

Lettera 7, narra di una donazione per Como.

Libro VI

Lettera 24, racconta un fatto avvenuto a Como.

Lettera 16-20,  parla dello zio.

Libro VII

Lettera 18, narra di una donazione per Como.

Libro IX

 

Lettera 7, parla delle sue ville  sul lago di Como.

Di seguito sono riportate interamente, per la loro importanza, le epistole  indirizzate all’ amico Publio Cornelio Tacito con la descrizione delle ultime ore di vita dello zio e padre adottivo di Plinio, il grande naturalista Plinio il Vecchio, perito nella tremenda eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia.

Questa di Plinio è l’unica consistente testimonianza diretta che ci sia pervenuta sull’ eruzione del vulcano, la prima avvenuta in epoca storica.

 

Libro  VI , lettera 16 

 

Caro Tacito, mi chiedi di narrarti la fine di mio zio, per poterla tramandare ai posteri con maggior esattezza. E te ne sono grato: giacché prevedo che la sua fine, se narrata da te, è destinata a gloria non peritura. Benché infatti egli sia perito in mezzo alla devastazione di bellissime contrade, assieme a intere popolazioni e città, in una memorabile circostanza, quasi per sopravvivere sempre nella memoria, e benché egli stesso abbia composto molte durevoli opere, tuttavia alla durata della sua fama molto aggiungerà l'immortalità dei tuoi scritti. Ben io stimo fortunati coloro ai quali per dono divino è dato o di fare cose degne di essere narrate o di scriverne degne di essere lette; fortunatissimi poi coloro ai quali è concesso l'uno e l'altro. Fra costoro sarà mio zio in grazia delle sue opere e delle tue. Perciò tanto più volentieri imprendo a compiere ciò che desideri, anzi lo chiedo come un favore.

Egli era a Miseno e comandava la flotta in persona. Il nono giorno prima delle calende di settembre, verso l'ora settima, mia madre lo avverte che si scorge una nube insolita per vastità e per aspetto. Egli, dopo aver preso un bagno di sole e poi d'acqua fredda, aveva fatto uno spuntino giacendo e stava studiando; chiese le calzature, salì a un luogo dal quale si poteva veder bene quel fenomeno. Una nube si formava (a coloro che la guardavano così da lontano non appariva bene da quale monte avesse origine, si seppe poi dal Vesuvio), il cui aspetto e la cui forma nessun albero avrebbe meglio espressi di un pino. Giacché, protesasi verso l'alto come un altissimo tronco, si allargava poi a guisa di rami; perché, ritengo, sollevata dapprima sul nascere da una corrente d'aria e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella o cedendo al proprio peso, si allargava pigramente. A tratti bianca, a tratti sporca e chiazzata, a cagione del terriccio o della cenere che trasportava. Da persona erudita qual era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da vicino. Ordina che si prepari un battello liburnico: mi permette, se lo voglio, di andar con lui; gli rispondo che preferisco rimanere a studiare, anzi per avventura lui stesso mi aveva assegnato un compito. Stava uscendo di casa quando riceve un biglietto di Rettina, moglie di Casco, spaventata dal pericolo che la minacciava (giacché la sua villa era ai piedi del monte e non vi era altro scampo che per nave): supplicava di essere strappata da una così terribile situazione. Lo zio cambiò i propri piani e ciò che aveva intrapreso per amor di scienza, condusse a termine per spirito di dovere. Mette in mare le quadriremi e si imbarca lui stesso per recar aiuto non solo a Rettina, ma a molti altri, giacché per l'amenità del lido la zona era molto abitata. Si affretta là donde gli altri fuggono, va diritto, rivolto il timone verso il luogo del pericolo, così privo di paura, da dettare e descrivere ogni fenomeno di quel terribile flagello, ogni aspetto, come si presenta ai suoi occhi. Già la cenere cadeva sulle navi, tanto più calda e densa quanto più si approssimava; già della pomice e anche dei ciotoli anneriti, cotti e frantumati dal fuoco; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita da massi proiettati dal monte. Esita un momento, se doveva rientrare, ma poi al pilota che lo esorta a far ciò, esclama: "La fortuna aiuta gli audaci, punta verso Pomponiano!". Questi era a Stabia, dall'altra parte del golfo (giacché ivi si addentra seguendo la riva che va via via disegnando una curva). Quivi Pomponiano, benché il pericolo non fosse prossimo, ma alle viste però e col crescere potendo farsi imminente, aveva trasportato le sue cose su alcune navi, deciso a fuggire, se il vento contrario si fosse quietato. Ma questo era allora del tutto favorevole a mio zio, che arriva, abbraccia l'amico trepidante, lo rincuora, lo conforta, e per calmare la paura di lui con la propria sicurezza, vuole essere portato al bagno: lavatosi, cena tutto allegro o, ciò che è ancor più, fingendo allegria. Frattanto dal monte Vesuvio in parecchi punti risplendevano larghissime fiamme e vasti incendi, il cui chiarore e la cui luce erano resi più vivi dalle tenebre notturne. Lo zio andava dicendo, per calmare le paure, esser case che bruciavano abbandonate e lasciate deserte dalla fuga dei contadini. Poi si recò a riposare e dormì di un autentico sonno. Giacché la sua respirazione, resa più pesante e rumorosa dalla vasta corporatura, fu udita da coloro che passavano accanto alla soglia. Ma il livello del cortile, attraverso il quale si accedeva a quell'appartamento, s'era già talmente alzato perché ricoperto dalla cenere mista a lapilli che, se egli fosse più a lungo indugiato nella camera, non avrebbe potuto più uscirne. Svegliato, ne esce e raggiunge Pomponiano e gli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultano fra loro, se debbano rimanere in luogo coperto o uscire all'aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano l'abitazione e quasi l'avessero strappata dalle fondamenta sembrava che ora sbandasse da una parte ora dall'altra, per poi riassestarsi. D'altra parte all'aperto si temeva la pioggia dei lapilli per quanto leggeri e porosi, tuttavia, confrontati i pericoli, egli scelse di uscire all'aperto. Ma se in lui prevalse ragione a ragione, negli altri timore a timore. Messi dei guanciali sulla testa li assicurano con lenzuoli, fu questo il loro riparo contro quella pioggia. Già faceva giorno ovunque, ma colà regnava una notte più scura e fonda di ogni altra, ancor che mitigata da molti fuochi e varie luci. Egli volle uscire sulla spiaggia e veder da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma questo era ancora agitato e impraticabile. Quivi, riposando sopra un lenzuolo disteso, chiese e richiese dell'acqua fresca e la bevve avidamente. Ma poi le fiamme e il puzzo di zolfo che le annunciava mettono in fuga taluni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due schiavi si alzò in piedi, ma subito ricadde, perché, io suppongo, l'aria ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione e bloccata la trachea che egli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata. Quando ritornò il giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo) il suo corpo fu trovato intatto e illeso, coperto dei panni che aveva indosso: l'aspetto più simile a un uomo che dorme, che a un morto. Frattanto a Miseno io e la mamma... ma ciò non importa alla storia, e tu non volevi conoscere altro che il racconto della sua morte. Faccio dunque punto. Una cosa sola voglio aggiungere: ti ho esposto tutto ciò cui assistetti o che seppi subito, quando i ricordi sono più veritieri. Tu cavane ciò che più importa: altra cosa infatti una lettera, altra una storia, altra cosa scrivere per un amico, altra per il pubblico. Addio.

 

 

Libro  VI , lettera 20

 

Dalla lettera sulla morte di mio zio materno che ho scritto a te che me lo chiedevi dici di essere stato indotto a desiderare di sapere quali non solo paure, ma anche eventi abbia sopportato io che ero rimasto a Miseno (questo punto infatti avevo interrotto dopo averlo iniziato).

"Benché la mente provi spavento a ricordare...,

inizierò".

Partito lo zio, io il tempo rimanente lo dedicai agli studi (per questo infatti ero rimasto): poi il bagno, la cena, un sonno agitato e breve. Aveva preceduto per molti giorni un tremore (della terra) meno temibile perché normale per la Campania: ma quella notte divenne così forte che si sarebbe creduto che tutte le cose non si muovessero, ma si rovesciassero. Si precipitò nella mia camera mia madre; mi alzavo a mia volta, intenzionato a svegliarla se dormiva. Ci soffermammo nel cortile della casa che separava il mare dalle abitazioni con un modesto spazio. Non so se la debba chiamare coraggio o incoscienza: infatti avevo diciassette anni. Chiedo un libro di Tito Livio e lo leggo quasi a tempo perso e addirittura, come avevo iniziato, prendo appunti. Ecco che un amico dello zio, che recentemente era venuto da lui dalla Spagna, quando vede me e mia madre seduti, me poi addirittura intento a leggere, rimprovera la condiscendenza di lei e la mia indifferenza: io per nulla più pigramente resto concentrato sul libro. Già era la prima ora della giornata e il giorno era ancora dubbio e quasi languido; già, scossi gli edifici circostanti, benché in luogo aperto, ma tuttavia stretto, grande e certa la paura di un crollo. Allora finalmente si decise di uscire dall'abitato. Segue una folla attonita e, cosa che nella paura è simile alla saggezza, preferisce alla propria decisione quella altrui, e con grandissimo assembramento incalza e spinge coloro che se ne vanno. Usciti dall'abitato ci fermiamo; lì assistiamo a molti fatti straordinari, ci capitano molti momenti di spavento. Infatti i carri che avevamo fatto portar fuori, benché in una superficie assolutamente piana, venivano spinti in direzioni opposte e neppure bloccati con pietre restavano fermi nello stesso punto di appoggio. Inoltre vedevamo il mare riassorbirsi in se stesso e quasi essere respinto dal tremore della terra. Certamente il litorale si era spostato in avanti e conteneva molti animali di mare nelle sabbie rimaste in secco. Dall'altra parte una nube nera e orrenda interrotta da correnti intrecciate e lampeggianti di aria infuocata si allargava in lunghe figure di fiamme; quelle erano sia simili a folgori sia più grandi. Allora poi quello stesso amico (proveniente) dalla Spagna in modo più deciso e più incalzante "Se tuo fratello" disse, "tuo zio è vivo, vuole che voi siate salvi; se è morto, vi ha voluti superstiti; quindi che cosa aspettate a scappare?" Rispondemmo che noi non avremmo permesso, incerti della sua incolumità, di provvedere alla nostra. Non trattenutosi oltre si precipita in avanti e a corsa sfrenata si toglie dal pericolo; né molto dopo quella nube scende sui terreni, copre i mari. Aveva circondato e nascosto Capri; di Meseno quello che si spinge (verso il mare) lo aveva tolto (alla vista). Allora mia madre a pregare, esortare, ordinare che fuggissi in qualsiasi modo: infatti potevo io giovane; lei appesantita e dagli anni e dal fisico sarebbe morta bene, se non fosse stata per me causa di morte. Io al contrario (dicevo) che non sarei stato salvo se non insieme; poi stringendo la sua mano la costringo ad allungare il passo; obbedisce a fatica e si accusa perché mi fa restare indietro. Già cenere, tuttavia ancora rada; guardo indietro: alle nostre spalle stava sospesa una densa caligine che ci seguiva dopo essersi riversata sul terreno come un torrente. "Deviamo" dico "finché vediamo, per non essere calpestati nelle tenebre, stesi sulla via, dalla folla di quelli che ci accompagnano." Ci eravamo appena seduti e una notte non come priva di luna o nuvolosa, ma quale in luoghi chiusi a lume spento; avresti sentito gemiti di donne, pianti di bambini, grida di uomini; alcuni cercavano con le voci i genitori, altri i figli, altri i coniugi, dalle voci li riconoscevano; questi lamentavano la propria sorte, quelli la sorte dei loro parenti; c'erano alcuni che per paura della morte invocavano la morte. Molti sollevavano le mani agli dei, più numerosi pensavano che ormai non ci fosse alcun dio da nessuna parte e che quella notte fosse eterna e l'ultima per l'universo. E non mancarono coloro che aggravavano i pericoli veri con terrori fittizi e inventati. C' erano alcuni che riferivano falsamente, ma a persone che ci credevano, che a Miseno quello era crollato, quello stava bruciando. Ritornò luce per un po', cosa che a noi sembrava non giorno, ma indizio di fuoco che arrivava; e il fuoco in verità si fermò più lontano; di nuovo tenebre, di nuovo cenere abbondante e pesante; la scuotevamo via ripetutamente alzandoci; altrimenti saremmo stati coperti e addirittura schiacciati dal peso. Potrei vantarmi che non un gemito, non una parola poco coraggiosa mi sfuggì in così gravi pericoli, se non avessi creduto che io morivo con tutte le cose, tutte le cose con me, con una misera, tuttavia grande consolazione della mortalità. Finalmente quella caligine, divenuta meno fitta, si dissolse quasi in fumo o nebbia; poi giorno vero; risplendette addirittura il sole, sporco tuttavia quale è solito essere quando è in eclisse. Agli sguardi ancora impauriti tutte le cose si presentavano cambiate e ricoperte come da neve da spessa cenere. Ritornati a Miseno, curati in qualche modo i corpi, trascorremmo una notte piena di incertezze e di dubbi, tra speranza e paura; la paura aveva il sopravvento. Infatti sia il tremore della terra perseverava, sia i più, deliranti, si prendevano gioco dei mali sia propri che altrui con vaticinazioni allarmistiche. Noi tuttavia neppure allora, benché sia avessimo provato sia aspettassimo il pericolo, prendemmo la decisione di andarcene, finché (giunse) la notizia sullo zio. Queste cose, per nulla affatto degne di una storia, le leggerai non con l'intenzione di scriverle; e se non ti sembreranno degne neppure di una lettera lo imputerai evidentemente a te che me lo hai chiesto. Stammi bene.

 

GIUSEPPE GARIBALDI (Nizza 1807 – Caprera 1882)

GENERALE E UOMO POLITICO ITALIANO.

Il 17 marzo 1859, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra d' Indipendenza italiana, il re sabaudo Vittorio Emanuele II affidò a G.Garibaldi il comando dei Cacciatori delle Alpi con il grado di maggiore generale dell’esercito sardo.

Alla loro testa il generale combatté vittoriosamente a Varese (26 maggio), S.Fermo (27 maggio) ed entrò poi a Brescia (13 giugno).

Le testimonianze di tali episodi si possono trovare nelle lettere scritte in quei giorni dallo stesso Garibaldi nel momento in cui si trovò a combattere in territorio comasco (vedi di seguito).

 

Le operazioni militari franco-piemontesi contro gli austriaci furono vittoriose e infatti Vittorio Emanuele entrò trionfalmente a Milano l’8 giugno 1859. Seguirono poi, al confine tra Veneto e Lombardia, le decisive vittorie di Solferino (vittoria dei francesi) e San Martino (vittoria dei piemontesi) del 24 giugno.

I successivi eventi politici e bellici portarono poi all' annessione anche delle regioni della Toscana e della Romagna e di tutto il Sud Italia dopo la famosa Spedizione dei Mille capeggiata ancora una volta da Garibaldi.

Il Regno d' Italia nacque ufficialmente poi il 17 marzo 1861 con la  proclamazione di Vittorio Emanuele II re d' Italia.

Comando dei Cacciatori delle Alpi al Quartier Generale Principale

Rapporto del Comandante dei Cacciatori delle Alpi al Comando Generale dell'Esercito Sardo

Varese, 29 maggio 1859

 

Ho l'onore di far noto al Comando Generale del­l'Esercito Sardo, che nel giorno 23 maggio corrente, feci sorprendere le guardie di finanza e i gendarmi di Sesto Calende, riposi in azione quel posto e passai colla mia brigata il Ticino.

Nel 24 maggio partii da Sesto Calende ed arrivai a Varese, lasciando in Sesto Calende la compagnia del capitano De Cristoforis (lo stesso che si distinse a Casale il di 8 corrente). Nel giorno dopo (25) il Capi­tano De Cristoforis fu colà assalito da un battaglione di fanteria austriaca, duecento cavalli e quattro pezzi e li respinse. Intanto la brigata si fortificava a Varese. Nel 26 maggio il feld maresciallo Urban attaccò i miei posti di Varese con tremila fanti, dugento cavalli e quattro cannoni. L'attacco cominciò alle 4 e durò sino alle 7 ant. I miei soldati respinsero il nemico, e tutto che sprov­visti d'artiglieria, uscirono fuori e lo inseguirono colle baionette ricacciandolo sino al di là di Malnate. Quivi il nemico giunto in posizione molto a lui favorevole fece un ritorno offensivo; si combatté buona pezza di tempo e pur questa volta i miei respinsero gli Au­striaci alla baionetta. Le nostre perdite nel detto giorno sommarono a 12 morti e 60 feriti; fra questi furono il capitano Alfieri del 2° reggimento e il luogo­tenente Rebustini del I°, il quale, cadutagli la sciabola per avere il braccio destro ferito, la ripigliava colla sinistra per continuare a combattere. Si distinsero sopratutto il luogotenente colonnello Medici ed il mag­giore Sacchi del 2° reggimento. Gli Austriaci ebbero duecento uomini fra morti, feriti e prigionieri. Essi appartenevano al reggimento Keller ed a un batta­glione di confinari. Nel giorno 27 partii da Varese per Como. A San Fermo incontrai gli Austriaci fortemente trincerati in cascine e nella chiesa, e li attaccai di fianco e di fronte. Nell'assalto di fronte il bravo capitano De Cristoforis ed il suo sottotenente Pedotti, andando innanzi per animare i soldati all'assalto, restarono morti; l'altro sottotenente della stessa compagnia Guerzoni ricevé una ferita che si crede pericolosa. Feci occupare S. Fermo da un battaglione e proseguii  inseguendo il nemico giù verso Como. Alle nove di sera entrammo nella città quasi fram­misti agli Austriaci, tra le grida di viva l'Italia, viva il Re Vittorio Emanuele. Riseppi tosto che la Divi­sione Urban, forte di nove mila fanti, quattordici pezzi d'artiglieria e duecento cavalli, si ritirò con fretta a Cantù e quindi a Monza, ed io subito occupai l'ultima posizione che il nemico teneva nella Camer­lata. Fu tanta la fretta del nemico nel ritirarsi, che lasciò nelle nostre mani tutti i suoi bagagli e i magaz­zeni, non escluse tutte le carte contabili. In questi scontri, oltre agli ufficiali già nominati, rimase ucciso il sottotenente Castellini, e gravemente ferito il luogotenente Daneo. Le perdite dei bass'uffi­ciali e soldati furono di 35 uomini, fra i quali tre morti. Restarono prigionieri una cinquantina di imperiali, per lo più Ungheresi. Ho l'onore di nominare i seguenti ufficiali come quelli che più si distinsero:

Il luogotenente colonnello Medici, comandante del 2° reggimento, che, condusse le sue truppe all'assalto in tutti i diversi scontri con animo e impeto straordi­nari.

Il maggiore Sacchi del 2° reggimento, il quale caricò ripetutamente alla baionetta gli Austriaci col­locati dietro ostacoli.

Il capitano De Cristoforis e il suo sottotenente Pedotti, i quali furono uccisi caricando alla baionetta gli Austriaci, collocati in una casa fortificata a S. Fermo.

Il luogotenente Rebustini continuò a combattere ferito al braccio destro. Il cacciatore Vigevano del 2° reggimento, ferito nel fatto del 26, continuava a combattere.

Sono degni di onorevole menzione: il luogote­nente colonnello Cosenz del I° reggimento, il capi­tano Ferrari del I°, i capitani Gorini e Susini, i te­nenti Grizziotti, Migliavacca e Pellegrini, i sotto­tenente Grazioli e Friguitis, i sergenti Bianchi, Carli, Magri, Mariani, Norici, i caporali Porro e Usberti, il cacciatore Giustiniani, tutti del 2° reggimento, ed il luogotenente Daneo del 3°.

Da Camerlata ritornai a Varese, e quindi marciai  verso Laveno. La notte dal 30 al 31 maggio presi le opportune disposizioni per fare una ricognizione offen­siva a Laveno, e se possibile, occuparlo. L'occupazione non riusci, sebbene delle due compagnie del l° reg­gimento mandate ad assalire il forte che ha nome Castello, l'una fosse arrivata dentro fino alla porta del ridotto interno. Il capitano Landi comandante di questa compagnia e il suo sottotenente Sprovieri, mentre precedevano con gran valore i soldati all' as­salto, furono feriti, e con essi sette uomini tornarono anche feriti; quattro ne mancano tuttavia, e manca ancora il luogotenente Gastaldi che forse è restato morto. .

Si distinsero in questo fatto i capitani Gandi e Bronzetti e il sottotenente Sprovieri.

Mentre mi disponeva ritornare a Varese, riseppi che il tenente maresciallo Urhan l'aveva occupato. Mi collocai in buona posizione tra Cuvio e Cassano, quindi scesi verso Varese, bivaccando a un qualche migliaio di metri dalla città. Ieri, 2 giugno, mentre il nemico accennava a girarmi, con sollecita marcia con­dussi la mia colonna a Como, che ripigliò animo. Duran­te questa ultima mia marcia, la Divisione del tenente maresciallo Urban in Varese è stata rinforzata.

 

G.GARIBALDI

 

P. S. -  Qui devo fare menzione del capitano Cenni del mio Stato Maggiore che alla testa di tre com­pagnie contribuì a girare la posizione di S. Fermo e facilitò la marcia su Como. Col Capitano Cenni si distinsero il sottotenente Stallo ed il caporale Caorz, e specialmente il tenente Pellegrini. La compagnia bersaglieri comandata dal capitano Maggi, si distinse dappertutto perdendo a Malnate nove uomini su trentacinque.

 

G.GARIBALDI

Ai Cacciatori delle Alpi

Corno, 3 giugno 1859

ORDINE DEL GIORNO

 

La marcia di ieri ha provato, che non solo al fuoco valgono i Cacciatori delle Alpi. Impavidi, ilari, nei disagi e nelle battaglie, noi porteremo il nostro popolo, che l'oppressione aveva sviato, sullo stesso sentiero che seguirono gli avi nostri. L'operosa vita a cui fummo chiamati senza definitiva organizzazione, ha impronto nei corpi della brigata alcun che di ca­ratteristico che fa desiderare più disciplina. Io mi rac­comando a voi su tale proposito, gioventù intelli­gente, parte eletta della bella gioventù italiana. Che la vostra disciplina non provenga dal rigore, no, ma dal santo convincimento della sua necessità per com­piere la sublime missione affidataci dalla Provvidenza. In due giorni abbiamo combattuto e vinto due volte. La ricognizione su Laveno ha provato l'eroismo che si trova nelle nostre file, e che deve essere imitato alla prima occasione da tutti voi. Se alcuna voce di scon­forto si propaga fra di voi, dovete accoglierla come la voce del tradimento, e rintuzzarla. Oggi pulizia d'armi e riposo. Domani pronti a combattere e vincere.

 

G.GARIBALDI

 

DISPOSIZIONI

Corno, 5 giugno 1359

Il maggiore Ceroni, alla partenza dei Cacciatori delle Alpi, provvederà alla difesa e sicurezza di Corno.

Egli avrà ai suoi ordini qualunque frazione delle truppe nazionali in Como residenti. Egli è incaricato di tutti i depositi, così di uomini che si stanno orga­nizzando militarmente, come di materiali apparte­nenti alla brigata.

Richiederà il commissario regio e il municipio per supplire ai bisogni del suo incarico. Egli occuperà fermamente la posizione di Baradello, punto princi­pale della difesa della città, e le posizioni di San Fermo e di Tre Croci, nel modo concesso dalle sue forze, difendendo la città a tutta possa contro qua­lunque aggressione del nemico. Promuoverà l'arruo­lamento di uomini, il loro armamento e vestiario colla maggiore energia, provvedendo pure all'organizzazio­ne ed istruzione degli stessi. Promuoverà energica­mente pure la confezione dei cappotti, scarpe, camicie, pantaloni, berretti, selle, buffetterie e simili. Intenden­dosi col commissario regio e col Municipio, provvederà all' acquisto di armi, munizioni, cavalli, muli, ecc. I cannoni trovati nei dintorni, saranno montati e messi in posizione per sua cura, e costrutte almeno mitraglie per gli stessi.

 

G.GARIBALDI

 

Ai Cacciatori delle Alpi

Corno, 10 giugno 1859

 

ORDINE DEL GIORNO

Il capitano Bronzetti alla testa della sua compagnia, terza del primo reggimento, ha compito uno di quei fatti che sono unici nei  fasti militari delle prime nazioni del mondo. Con soli cento uomini circa assale un corpo nemico di circa mille uomini a Seriate, lo sbaraglia e fa loro dei prigionieri. Con uomini di tanta prodezza si può tentare ogni impresa, e l'Italia deve ricordarli eternamente.

S. M. mi ha incaricato di porgere in nome suo e dell'Italia i suoi encomii e le sue congratulazioni al Corpo dei Cacciatori delle Alpi per l'impavido e valo­roso suo contegno nelle fazioni di guerra da esso gloriosamente disimpegnate. Io commosso e superbo di comandare questi prodi, aggiungo soltanto una raccomandazione di più accurata disciplina.

 

G.GARIBALDI

FONTI BIBLIOGRAFICHE

 

 

Catullo; I canti;

A cura di Alfonso Traina e Enzo Madruzzato

Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1982.

 

Tito Livio, Storia di Roma, Libri XXXIII-XXXIV

A cura di Carlo Vitala

Zanichelli editore, Bologna 1986

 

Strabone, Geografia, Libri III-IV – Libri V-VI

A cura di Anna Maria Biraschi

Biblioteca Universale Rizzoli. 1994

 

Como, duemila anni tra cronaca e poesia.

A cura di Beniamino Fargnoli

Marzorati Editore, 1991.

 

Carta Archeologica della Lombardia, Vol. III: Como. La città murata e la con valle.

A cura di Marina Uboldi

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Corso di Storia

A cura di Carlo Capra, Giorgio Chittolini, Franco Della Peruta

Editrice Le Monnier, 1992

 

Storia dell’ ottocento

Franco Della Peruta

Editrice Le Monnier, 1992

 

Storia dell’ architettura contemporanea

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Storia dell’ arte – linguaggi e percorsi

Editrice Electa – Bruno Mondatori 1995

 

Approfondimento sulla seta:

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Almanacco lombardo

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Dizionario della pittura e dei pittori

Autori vari

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San Bartolomeo in Como

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Storia di Como e sua provincia

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Il Santo vescovo provino e la sua chiesa in Como

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I maestri dell’ astrattismo comasco

A cura di Anzani Giovanni

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Quattro lustri di storia e arte nel San Fedele di Como 1961 – 1981

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Pittura a Como e nel Canton Ticino dal Mille al Settecento

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Como e la sua storia

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Giuseppe Garibaldi, scritti e discorsi politici e militari

 

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